sul voto degli italiani all'estero

di Daniele Salvini, per Scena Illustrata Aprile 2006

Nel migliore dei mondi possibili, mentre tutto procedeva nel migliore dei modi,
fu promulgata una legge in Italia. Era il 27 Dicembre 2001 ed il sapore dei
dolci natalizi ancora tornava in bocca ad alcuni dei deputati presenti, assieme
ad un vago retrogusto di moscato. L'Atmosfera festiva deve essere stata comunque
sobria visto che solo un mese e mezzo prima un attentato alle Twin Towers negli
Stati Uniti aveva scosso globalmente le coscienze. In queste circostanze furono
promulgate le Norme per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani
residenti all'estero http://www.camera.it/parlam/leggi/01459l.htm.
Per essere italiani, secondo lo ius sangui, basta essere figli di un italiano;
oppure, secondo la ius solis, nascere sul territorio italiano.
Essendo l'Italia popolo di navigatori, ci sono cinquanta milioni di italiani
all'estero e secondo i dati del ministero, circa tre milioni e mezzo di essi
sono iscritti all'AIRE (Anagrafe Italiana Residenti Estero) e potranno
esercitare il voto o lo avranno esercitato il 9 Aprile 2006.  Non è mia
intenzione, girovagando nel migliore dei mondi possibili, domandarmi se il nuovo
voto influenzerà o meno i risultati elettorali, essendo ovvio che lo
farà. Preferivo nel piccolo di un'esperienza personale sentire com'era vissuta
l'italianità all'estero. Una gita a Bensonhurst, una piccola Italia di Brooklyn
mi ha portato ad incontrare un gruppo di signori intenti a giocare a carte in un
circolo. Odore di caffé nell'aria, accenti con varie sfumature di sud, una
grande televisione che porta nel circolo della piccola Italia le immagini
dell'Italia grande.  La discussione è coerentemente politica.
I Signori del circolo sono italiani emigrati trenta o quaranta anni fa, molti di
loro si sono detti sicuri di sentirsi italiani e di voler bene all'Italia ma non
altrettanto certi di comprenderla, tantomeno nelle sue manifestazioni
politiche. La Confusione è grande anche sotto il migliore dei cieli, si fa
fatica a pensare che in Italia le leggi elettorali non siano le stesse di quelle
americane dove ad esempio si vota una volta sola per tutto: presidente, sindaco,
tutto nello stesso giorno di Novembre. Diventa difficile confrontarsi con uno
Stato che non si conosce anche se è abitudine passarci se possibile una volta
l'anno a salutare amici e rivedere parenti.  A quanto pare le vacanze però non
bastano per capire cosa succede in una nazione anche se è la nazione dove si è
nati. Alcune cose risultano talmente incomprensibili da essere accantonate; i
nuovi partiti, maggioritario, proporzionale e par conditio sono parole difficili
eppure tutti o quasi vogliono votare anche ammettendo che non stanno capendo
molto di ciò che accade laggiù, che hanno visto i candidati e li hanno ascoltati
attentamente ma si chiedono come puo' qualcuno che sta qui a raffrontarsi con le
leggi anche non scritte di chi sta lì?
E il dibattito ferve. Arrivano altre tazze di caffè ed altre facce e tutti
vogliono parlare con lo straniero che arriva da casa loro, stupiti e lieti di
essere interpellati, verificano cautamente che parli l'italiano e pure che parli
l'inglese. Stupiscono che conosca sia le leggi del suo/loro Paese che quelle del
nuovo Paese che ospita loro/lui. Tutti vogliono parlare e tutti vogliono stare a
sentire. Si lamentano dei figli che sono nati qui o che sono arrivati talmente
piccoli da non avere alcuna memoria dell'Italia grande, per loro l'Italia e'
solo quella piccola dove sono cresciuti, distante 40 minuti di metropolitana
dall'Empire State Bulding.
Se questi signori non si sono detti certi di saper decodificare la galassia
politica italiana, certo non lo potranno fare i loro figli; a sentir loro, i
figli: "non capiscono niente".
Certo che la retorica dei rapporti padri-figli non cambia colla latitudine. I
Figli voteranno per quello che vota il padre, o non voteranno. Molti figli hanno
scelto di non iscriversi all'anagrafe italiana perché di italiano hanno solo il
cognome, se infatti è certa la loro italianità per lo Ius Sangui e con essa il
loro diritto al voto, non è altrettanto certo il loro senso politico. E del
resto è normale: un Paese è di chi lo abita, e chi abita all'estero, sopratutto
chi ci è nato, sente più urgente il bisogno di interagire politicamente col
Paese che vive quotidianamente piuttosto che con un paese lontano, vivo solo nel
ricordo dei loro genitori.
Genitori che del resto, come sostengono i figli che stanno in un circolo poco
lontano, sono senili e aggrappati a un ricordo, e della realtà odierna: "non
capiscono niente".  Sia allora più giusto che un italiano all'estero voti per
l'italia o che ci voti uno straniero che in Italia ci abita?  O ancora: e' più
straniero un cittadino italiano nato e cresciuto all'estero o uno straniero che
da 15 anni abita, lavora e vive in Italia?
Se questi figli di italiani all'estero arrivassero in Italia, i cittadini
stranieri in Italia sarebbero in grado di aiutarli a prendere informazioni e
cavarsela con il tessuto sociale e con le istituzioni spiegando loro anche tutta
quella serie di leggi non scritte sulle quali si basa la cultura del Paese.
Probabilmente alla fine si berrebbero insieme un caffè, bevanda corroborante ed
esotica per entrambi, gli italiani spiegando agli "stranieri" che il loro Paese
(l'America o l'Argentina o l'Australia) ha leggi diverse e gli "stranieri"
confessando che con il loro Paese non sono più molto in contatto perché vivono
in Italia da talmente tanto tempo che ormai non sanno più riconoscerlo
quell'altro Paese dal quale provengono. "pensa che ora anche là si vota ma a
dire il vero non sanno bene come stiano andando le cose..."
Le Frontiere si stavano assottigliando qualche anno fa, sono sicuro che lo
ricorderete. I Viaggi aerei costavano meno e diventavano routinari,
l'informazione si globalizzava e la grande nuova rete portava nuove veloci
possibilità di comunicazione. Che meraviglia la sensazione di lasciarsi alle
spalle un secolo vecchio e antipatico, guerresco e arrogante. Meraviglia non
aver visto la guerra e non vederla mai. Poi all'inizio del secolo è scoppiata la
guerra.  Ma quelle frontiere si sono assottigliate davvero nel nostro
immaginario collettivo e non c'è verso che ci dicano che non è già più vero, ci
scandalizziamo negli aeroporti quando ci controllano per più tre volte il
computer o ci fanno vuotare le tasche con piglio generalesco.  Non ci sembrano
efficienti manovre anti-terrorismo ma un noiosa e faticosa prassi che ci rende
più difficile viaggiare. I visti da chiedere e sperare di ottenere ci portano ad
un clima di guerra fredda e le impronte digitali da lasciare ci colgono
impreparati e scandalizzati.
Per tanto tempo ci siamo detti, ci hanno detto, che il mondo è grande, il mondo
è di tutti e si può andare dove si vuole, viaggiare per conoscere e capire, ma
ora sembriamo tornati indietro nel tempo di colpo. E non è solo l'interazione
tra stato e chiesa che sembrava risolta da De Gasperi a farci tornare indietro
di 50 anni, non è solo la frammentazione dell'italia dei comuni a farci tornare
al periodo garibaldino, non è solo la crociata tra religioni buone e cattive a
farci tornare al medioevo.  Bisogna adeguarsi alla realtà, è quindi giusto che
il luogo dove si prendono le decisioni politiche sia il luogo dove si vive, dove
si abita e che siano le frontiere di questo luogo ad allargarsi il più possibile
fino ad arrivare a una sola frontiera, quella che separa il mare dalle stelle.

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